
La Russia ha aggredito per prima?
5 giu 2024
17 minuti di lettura
1
59
0
L' evoluzione del concetto di violenza nel conflitto bellico contemporaneo e nel pensiero militare. L'aggressione militare nell'era contemporanea non cade più nella sfera del visibile.

L’estetica di un conflitto bellico non è sempre rivelatrice della posizione delle parti che entrano in gioco nel conflitto stesso. Specialmente dal XX secolo in avanti. Tuttavia, sembra in apparenza facile posizionarsi in uno o l’altro schieramento in funzione della valutazione su chi propone una aggressione e chi invece la riceve.
Lo sappiamo bene noi europei che, nonostante tutto, in tempi recenti alla fine non abbiamo visto di buon occhio la politica di potenza statunitense attuata unilateralmente in Medio Oriente ed il ruolo di aggressori che, malgrado la grandiosa retorica di contrapposizione bene-male gettata in pasto alle opinioni pubbliche occidentali per un ventennio, abbiamo assunto nel contesto della guerra al terrorismo globale.
C’è qualcosa in quelle milioni di vittime civili contate in Iraq come anche nella tragedia dell’Afghanistan che ci fa un po’ storcere il naso, come se dopotutto i tremila morti delle torri gemelle veramente non giustificassero il massacro di più di un milione di persone che personalmente non ci hanno mai fatto nulla di male, salvo magari stare dalla parte sbagliata della Storia.
E per quanto l’Occidente in generale si arroghi il diritto di essere sempre dal lato giusto della barricata, alla fine il fatto che siamo stati noi ad invadere la loro terra ed a distruggere il loro stile di vita ci fa un po’ digerire male il concetto secondo il quale saremmo formalmente dalla parte del giusto.
In quel contesto, alla fine dei giochi, è stato lineare il ragionamento che ha portato l’uomo comune a definire chi fosse l’aggressore e l’aggredito. Perchè chi si è ritrovato con “gli scarponi nel terreno” in territorio altrui con fanteria meccanizzata, aviazione, forze speciali, intelligence, eserciti privati e chi più ne ha più ne metta non sono certamente stati gli Iracheni o gli Afghani.
Ma è sempre così semplice determinare la dinamica per qualificare chi attacca e chi subisce l’attacco? La domanda è importante perchè in base a tale definizione componiamo l’architettura della nostra visione del mondo. E quindi delle nostre scelte politiche.
In epoca antica era relativamente facile determinare i ruoli di aggressore ed aggredito: sarebbe bastato determinare chi, tra i due contendenti, avesse causato l’atto di violenza iniziale in seno al territorio nazionale altrui.
La linea di demarcazione tra assalitore ed assalito sarebbe passata, dunque, attraverso la definizione di cosa intendiamo per un atto di violenza. E del suo rapporto causa-effetto con il concetto di Guerra. Apparentemente semplice secondo la comune maniera di vedere le cose, dove l’ammissione dell’esistenza di un conflitto sarebbe conseguita solo di seguito alla iniziale osservazione di una certa azione che implichi ferocia o brutalità contro la vittima.
La guerra è una funzione subordinata dell’aggressione, ed è importante rimarcare questo rapporto di subordinazione, perchè in base ad esso dipendono tutte le nostre valutazioni, e quindi il nostro posizionamento tra gli schieramenti coinvolti nella lotta. Ovvero la nostra visione del mondo.
La sostanza è che le definizioni sono fondamentali perchè soddisfano quella condizione di indicatori in base ai quali il nostro comportamento si accorda ed il nostro allineamento con le parti in contrasto si compie.
Ma che succede qualora scoprissimo che proprio quelle definizioni che pensavamo di aver assimilato e reputato definitive, sono in realtà errate? Che i nostri punti di riferimento non sono più tali? Del resto pensare che le cose siano immutabili è un retaggio di matrice medioevale, e che la modernità sta nell’accettare la mutazione, l’evoluzione di certi parametri che assumevamo come decisivamente fissati.
Qualcuno, a questo punto, potrebbe magari pensare che il presente ragionamento possa applicarsi anche all’apparentemente semplice concetto di violenza.
E che ciò che in antichità si usava definire come pacifico magari, nella complessità del mondo contemporaneo, forse non lo è. Questo qualcuno probabilmente starebbe ragionando in maniera corretta. Guerra è anche qualcosa che va oltre il nostro orizzonte osservabile.
Andiamo con ordine.
Restava da capire come poter qualificare la violenza.
La filosofia politica ci viene in aiuto. Se è vero che bisogna sempre prendere spunto da chi gode di una statura intellettuale di natura superiore, allora le opere di Carl Von Clausewitz in questo contesto sono certamente il nostro punto di riferimento. Attingiamo quindi da esse. Si definisce, quindi, un atto di guerra tutto ciò che persegue obiettivi politici con strumenti terzi rispetto quelli adoperati normalmente nelle pacifiche relazioni internazionali.
Tradotto: tutto ciò che presuppone l' annientamento di chi si oppone alla volontà dell’aggressore di perseguire quel fine politico, che con altri mezzi non sarebbe in grado di ottenere, è definibile come violenza e quindi Guerra.
L’atto bellico è strettamente correlato a questi due fattori: l’impiego della aggressività fisica proiettata in un ben definito teatro di operazioni ed un presupposto fine politico ottenuto per il tramite di essa. L’ uno non può prescindere l’altro poiché altrimenti ci ritroveremmo in un evento di altra natura.
L’identificazione della violenza presuppone, allordunque, la distruzione meccanica di chi riceve l’aggressione. Dolore fisico o cessazione delle attività vitali del nemico sono le caratteristiche che soddisfano la definizione di cui sopra. Abbiamo forse risposto a parte delle nostre domande iniziali. Forse.
Non andiamo in profondità con i corollari della definizione di Clausewitz, che esulerebbero lo scopo del presente ragionamento. Ci basti puntualizzare sul fatto che la corrente definizione fu presa come pietra angolare dell’intero pensiero politico-militare ottocentesco.
E come abbiamo detto precedentemente è dalla definizione a monte che derivano le nostre valutazioni a valle.
Sarebbe certamente sciocco credere che, come tutti i processi che concorrono a definire le scienze, anche questo inerente il pensiero militare-strategico si sia cristallizzato irremovibilmente in una opera scritta nel 1832 e che rifletteva la società di quel determinato periodo storico. Questo ci porta a trarre diverse conclusioni: il pensiero militare, come tutte le discipline, si è arricchito ed ampliato.
Anch’esso non è un qualcosa di statico.
Un successivo contributo fondamentale fu esposto da un’altra figura cardine del pensiero politico quale fu Carl Schmitt, il quale nella sua opera Teoria del Partigiano (1963) ci aiuta a focalizzare meglio la definizione di cosa fosse la guerra nell’era della deterrenza nucleare.
Abbiamo detto che secondo la visione ottocentesca dominata da Von Clausewitz possiamo definire la violenza in seno al conflitto bellico come un elementare processo che conduce alla distruzione meccanica del nemico. Violenza implica distruzione fisica, il che è certamente coerente con la nostra comune maniera di vedere le cose.
Purtroppo per noi, Carl Schmitt ci porterà ad un allargamento di questa definizione, poiché la sua analisi presuppone il riconoscimento, nel XX secolo, di una mutazione del concetto di guerra precedentemente esplorato. Ed è qui il punto capitale del ragionamento.
La violenza è un qualcosa che si evolve e le varie sfere in cui può essere esercitata possono concorrere a determinare obiettivi di natura politica.
Poiché la Guerra nell’era della deterrenza nucleare è un qualcosa che non può più essere effettuato tramite il dispiegamento su vasta scala di divisioni militari che si fronteggiano apertamente, pena l’escalation che condurrebbe irrimediabilmente all’olocausto nucleare, allora essa deve essere condotta in altra maniera.
Deve cedere le sue dimensioni quantitative in favore di quelle qualitative. Bisogna perseguire obiettivi politici con un sapiente uso della aggressività mirata e scientificamente attuata senza sforare nel conflitto aperto.
Deve tendere più verso la scala dell’invisibile che del visibile.
Schmitt individuò dei nuovi strumenti di conduzione della guerra in questo particolare contesto. Questi implicavano ancora impiego di violenza fisica ma con una mutazione di scopo: se in antichità la mera distruzione meccanica del nemico era di fatto il fine ultimo di una azione militare, ora nell’era nucleare questa diventava solamente un mezzo per
una ulteriore intenzione: lo scatenamento di particolari reazioni in seno alla società nemica.
Queste reazioni potevano essere così poderose da mettere in ginocchio una intera popolazione e spezzarne la compattezza, se trasmesse attraverso uno scientifico impiego della violenza.
Stiamo osservando un passaggio di testimone: l’obiettivo dell’aggressione non è più il militare nemico ma l’intera comunità dello stato nemico. Lo spezzarsi della sua coesione psicologica può avere effetti dirompenti e paragonabili a quelli di una azione militare in senso classico: il piegarsi delle forze politiche aggredite alla volontà di chi sta attaccando. Non è forse questo, ancora, il famoso e solito fine politico di Clausewitz su cui verte una azione di Guerra? Stiamo sempre girando li intorno, ma puntualizziamo: non è quindi cambiato il cosa, ma il come.
In che maniera vengono scatenate queste forze poderose in grado di piegare una intera società?
Attraverso la Paura ed il Terrore.
Aspetti fondamentali sapientemente analizzati da Carl Schmitt nell’impiego della strategia bellica e che concorrono a formulare la sua famosa tesi sulla guerra asimmetrica.
La Guerra nell’era nucleare diventa così nominata poiché non si fronteggiano più vaste divisioni militari schierate linearmente l’una di fronte l’altra, ma si colpiscono società intere con quantitativi di violenza mirati e limitati. Una potenza di fuoco infinitesimamente più piccola con contenuto potere distruttivo, ma ad elevato impatto psicologico e sociale.
Paura e Terrore giocano un ruolo fondamentale in questa evoluzione poiché sopperiscono alla diminuzione della dimensione quantitativa del conflitto bellico, inattuabile nell’era nucleare.
Basta l’impiego di atti terroristici, meglio ancora se indirizzati verso civili inermi, non direttamente coinvolti nel conflitto, per scatenare a chi subisce l’aggressione quelle reazioni psicologiche sapientemente previste e veicolate dal Terrore, che condurrebbero ad una destabilizzazione dell’ordine sociale e politico. Con effetti paragonabili a quelli di un conflitto bellico regolare, ma senza la scocciatura dell’ impiego del vasto (e visibile) arsenale militare.
Possiamo vedere l’intera questione come una maniera più intelligente ed efficiente di razionalizzare la violenza.
E’ un elemento centrale nella analisi di Carl Schmitt sulla guerra del XX secolo, che vede il terrorismo assurgere al ruolo centrale di strumento di conduzione dei conflitti nell’era nucleare.
Quello che ci interessa in questa sede, è lo straripamento del concetto di violenza dalla sfera prettamente fisica a quella non fisica. Più precisamente in quella psicologica, come evidenziato dall’opera di Schmitt.
Perchè la violenza a cui è soggetta la popolazione civile colpita da un attentato terroristico è solo minimamente fisica. Tolti di mezzo quei poveracci che hanno avuto la disgrazia di trovarsi nei pressi del raggio di azione di un attentato, il rimanente della comunità non viene intaccato dall’ aggressione fisica. Essi non subiscono alcuna distruzione meccanica. I loro nervi non trasmettono alcun segnale di dolore materiale.
Non è il loro corpo che cade vittima dell’aggressione, ma la loro mente.
La condizione di terrore che verrà generata nel loro cervello sarà talmente straziante da condizionarli irreversibilmente. Perchè non c’è niente di più terrificante della sensazione vulnerabilità più completa nei confronti di un nemico invisibile che può colpire chiunque, in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo.
E’ proprio questo lo scopo dell’attentato. E’ questo tipo di shock a condizionare in maniera calcolata il comportamento di una singola persona in maniera tale che, sommandone gli effetti dell’intera comunità, se ne ricaverà come risultato la integrale frantumazione della coesione sociale. Un effetto politico poderoso. E contrario agli interessi della collettività.
Non è questa una nuova forma di violenza? Se il nostro agire va a vantaggio di qualcuno che non siamo noi stessi e in maniera contraria ai nostri interessi non è forse questa una forma di aggressione?
E’ questo l’eccezionale salto di qualità dell’esposizione di Carl Schmitt rispetto la semplicistica visione del mondo del XIX secolo: la constatazione dell’esistenza di una forma di violenza nuova, che è correlata in maniera minimale alla distruzione meccanica degli obiettivi ma, piuttosto, è definita in maniera preponderante dagli effetti psicologici che essa scatena nelle vittime.
Non si cada in tentazione di pensare che questa sia mera teoria placidamente limitata dalla carta stampata, giacché questa fu la colonna portante della strategia militare di gran parte del ventesimo secolo.
Dal momento in cui il Terrore diventa un mezzo imprescindibile della conduzione della Guerra, così come esposto nel Teoria del Partigiano di Carl Schmitt, irrimediabilmente realizziamo che il nuovo campo di battaglia in cui esso agisce non è più spazialmente delimitato da barriere fisiche come nel caso del classico teatro di operazioni. Le battaglie non vengono condotte più solamente nel Mar Mediterraneo o nelle Ardenne. Il nuovo campo di battaglia cade nella sfera dell’imponderabile e dell’invisibile. Un nuovo elemento in cui convergono forze attive di aggressione che non era stato previsto dalla classica teoria della guerra ottocentesca, matrice di tutto il pensiero politico-militare esistente. Ci stiamo naturalmente riferendo alla mente umana.
Ma se è vero che lo scopo del Terrore è quello di perseguire un determinato fine politico in favore di chi quel Terrore lo sta esercitando a spese di chi lo subisce, allora significa che siamo di fronte ad un atto di Guerra. Proprio quella guerra di tipo nuovo caratteristica dell’era nucleare.
Perchè la guerra è politica, non può mai prescindere da essa. E se siamo di fronte ad un atto di Guerra, per definizione, come ci insegna Carl von Clausewitz, allora questo è un atto di pura violenza. Non fisica, non tangibile, non quantificabile in termini di distruzione meccanica. Ma una tipologia innovativa di violenza più coerente con la condizione sociale e politica del XX secolo.
Potremmo quasi azzardare a definire la società umana come un qualcosa che tende a progredire nella Storia verso stili di vita che implichino un decremento di una certa gradualità dell’esercizio della violenza fisica, ma con lo scotto da pagare in favore di tipi di violenza di altra natura. Del resto come disse quel tale che ben intese il funzionamento fondamentale dell’universo: tutto si trasforma e nulla si distrugge in questo mondo.
Rimarchiamo, dunque, l’ evoluzione della definizione della Violenza attraverso il passaggio dalla dimensione fisica a quella non fisica. Dallo spettro del visibile a quello dell’invisibile.
Non c’è assolutamente da meravigliarsi in questo: in tutte le discipline si riscontra una continua tendenza verso la sfera dell’imponderabile e quella militare non fa eccezione.
Non è forse così per la Fisica? Non è forse vero che per definire un fenomeno fisico, oggi, non possiamo solamente basarci su ciò che è osservabile dai nostri occhi? E che per definire la realtà non possiamo soffermarci unicamente su ciò che ricade nella regione del visibile? Esistono forze, reazioni, campi d’azione, effetti che ricadono ben oltre il nostro sguardo. E che se oggi non avessimo operato il necessario sforzo di guardare ben oltre il nostro naso saremmo rimasti con una comprensione immatura e parziale della realtà che ci circonda. Non può essere così anche per la scienza bellica?
Perchè se è così, allora inevitabilmente tutto questo conduce a delle importanti conseguenze.
La prima, è che dobbiamo rimodulare la nostra visione nelle definizioni di chi è l’assalitore e chi l’assalito. Se l’aggressione non è più solamente correlata alla mera distruzione meccanica del soggetto aggredito, ma anche alla provocazione di determinati effetti psicologici non necessariamente osservabili nel campo delle dimensioni fisiche materiali però convenienti a chi persegue l’aggressione, allora potremmo realmente trovarci veramente in un bel pasticcio.
Perchè non saremmo in grado di percepire l’aggressione contro di noi. Se ci aspettiamo che un assalitore impugni un fucile o ci allunghi un pugno per poterlo definire tale, cosa succede se chi aggredisce si muove colpendo in una sfera al di fuori della nostra percezione senza necessariamente l’impiego di una arma visibile nel senso classico del termine? Cosa succede se l’aggressore agisce in un campo che va oltre i nostri consueti punti di riferimento?
Potremmo essere sotto attacco senza esserne consapevoli. Anche se non vediamo il fucile che spara contro di noi.
Potremmo aver definito amico chi invece amico non è, poiché la nostra definizione di aggressione è falsata dal non tenere conto della dimensione non fisica di un atto di violenza.
Il tenere conto solamente ed unicamente di ciò che è immediatamente percepibile dai nostri sensi potrebbe rivelarsi un grave errore. Poiché tralasceremmo delle informazioni importanti che concorrono ad edificare le nostre valutazioni sull’architettura della realtà.
Del resto in antichità non tenevamo neanche conto della fisica intrinseca nella materia, poiché cadeva nella sfera del non direttamente osservabile all’occhio umano. E finché peccavamo di questa cecità abbiamo continuato a usare mulini a vento e cavalli, convinti di aver una visione completa dell’ambiente circostante. Faraday e Maxwell ci hanno insegnato che esistono cose al di fuori della nostra diretta percezione, hanno corretto Newton constatando che, a causa della parzialità e fallacia dell’occhio umano, esistono forze non immediatamente individuabili.
Ma esistono. Ed i loro effetti sono più che tangibili e quantificabili.
E questo vale per tutte le cose di questo mondo. L’ineluttabilità che certe definizioni e campi di azione devono tenere conto della sfera dell’invisibile oltre che di ciò che è osservabile solo in superficie.
Dicevamo che l’estetica di un conflitto bellico potrebbe non sempre rivelare la posizione delle parti che entrano in gioco. Questo perchè la semplice osservazione di chi abbia sparato il primo colpo potrebbe indurci in errore, poiché cadrebbe solo nel campo dell’immediatamente visibile. Del superficiale. Ma abbiamo appena imparato che ciò che effettivamente è potrebbe risiedere ben al di la di ciò che appare.
Un aggressore potrebbe aver attuato l’atto iniziale di violenza in modalità terze rispetto quelle che implicano la mera distruzione meccanica dell’avversario. E noi non lo avremmo percepito, vincolati dalla nostra visione arcaica delle cose e di conseguenza sbagliando le nostre valutazioni.
E’ la stessa filosofia militare del secolo XX ce lo impone: Carl Schmitt ci informa che dobbiamo tenere conto della sfera di azione del campo non puramente materiale se vogliamo essere coerenti con la logica della Guerra dell’era nucleare. A maggior ragione, per definire chi sta realmente attaccando e chi sta subendo l’attacco.
Se attualizziamo la nostra visione con i moderni concetti di valutazione del contesto bellico e teniamo quindi conto di ogni sfera di azione della violenza oltre a quella della distruzione materiale dell’avversario, potremmo ritrovarci a dir poco disorientati.
E a dover rimodulare la nostra posizione nei confronti delle parti in gioco.
Specialmente noi europei, che tendiamo a simpatizzare soprattutto con coloro che ricevono un attacco piuttosto che con chi ne ha l’iniziativa. Niente di male, assolutamente: è il risultato della nostra cultura liberale commista alle devastazioni continentali della Seconda Guerra Mondiale. Ma dobbiamo stare alquanto attenti quando ci lasciamo trascinare dall’emozione poiché potremmo rimanere piuttosto turbati se scopriamo che le nostre valutazioni drogate dall’emotività vengono poi scosse da un ribaltamento delle definizioni.
Chi è l’aggressore? Il primo che ha sparato col fucile o colui che ha esercitato l’aggressione con altri mezzi? Da che parte ci posizioneremmo, quindi?
Se ci aspettassimo che l’analisi dell’evoluzione della condotta della guerra moderna sia relegata unicamente al pensiero di Carl Schmitt probabilmente saremmo nuovamente in errore. Lo stesso Schmitt trae i suoi ragionamenti attingendo da fonti autorevoli del pensiero politico e militare quali Lenin e Mao, tutti citati nella sua opera. I quali furono personalità fondamentali nel descrivere la varietà dello spettro delle forme di lotta che possono verificarsi nel conflitto, puntualizzando quindi che la violenza può verificarsi in varie forme. Tutte impiegabili a fini politici. E’ certamente superfluo menzionare gli effetti della loro analisi strategica, data la grandezza della loro portata storica. Uno fu l’artefice del crollo dell’impero russo nel 1917, l’altro fu l’esecutore della Guerra di Lunga Durata che condusse alla costituzione di quella che probabilmente sarà a tutti gli effetti la nuova superpotenza mondiale, la Cina. Non solo giganti del pensiero politico, quindi, ma anche della strategia militare. Da cui Schmitt attinse e maturò la sua analisi sulla condotta della guerra dell’era nucleare.
Si potrebbe pensare che si sia tracciato un percorso, più o meno graduale, nella analisi dell’esecuzione del conflitto bellico e nelle forme variegate che esso assume nell’evolversi degli scenari politici e sociali.
Come dicevamo soffermarsi solamente su Carl Schmitt, il quale gia da sé assurgerebbe a fondamentale punto di riferimento del pensiero, ci indurrebbe ad una analisi parziale delle fonti che fanno maturare il nostro ragionamento. Ne potremmo citare varie ulteriori.
Ma forse quella più spettacolare è proprio l’analisi elaborata in seno a quella che assurge ad essere la futura superpotenza mondiale: la Cina.
Non dovrebbe sorprendere che proprio dalla Cina provenga una delle più interessanti indagini del pensiero strategico-militare, dato in primis il suo affascinante connubio tra cultura confuciana e marxismo; ed in secundis la sua rotta di collisione con gli Stati Uniti.
Quando metti insieme Sun Tzu, Lenin e Mao in una sorta di salsa piccante mantecata dalla rivalità intrinseca verso la potenza capitalistica dominante, il risultato non potrà che essere certamente avvincente.
Una miscela esplosiva, dunque, che ha fatto prendere la luce nel 1999 al Guerra senza limiti , scritto da due ufficiali dell’Esercito di Liberazione Cinese. Un’indagine sulle moderne forme di condotta della guerra da parte degli Stati Uniti d’America nell’arco della sua storia contemporanea, a sottolineare come il mero strumento militare abbia tutt’al più un ruolo marginale, se non del tutto secondario, nell’esecuzione del conflitto bellico.
Quello che più preme evidenziare è l’impiego di mezzi apparentemente pacifici come la Diplomazia e le organizzazioni internazionali, come anche la Finanza, a scopo squisitamente bellico da parte degli Stati Uniti per la risoluzione delle controversie di ogni tipo.
Gli effetti politici di una crisi finanziaria a danno di un determinato soggetto politico reputato in qualche maniera ostile hanno conseguenze paragonabili a quelle di un conflitto militare regolare.
L’impiego e la condotta scientifica delle Relazioni Internazionali a danno dello stato canaglia di turno, potrebbe essere un altro esempio. Come l’isolamento del quale fu vittima l’Iraq di Saddam Hussein nel 1991, sapientemente congegnato dalla Diplomazia americana, che gettò il regime del Rais in pasto alla rabbia della opinione pubblica mondiale formidabilmente veicolata da un sapiente uso dei media.
Come si sarebbe sentito il soldato iracheno, vedendosi improvvisamente l’intero mondo allineato contro di lui? Che riposta psicologica avrebbe avuto la popolazione civile a Baghdad, dato che l’intero pianeta aveva fatto il vuoto termodinamico contro l’Iraq? E che portata ebbe tutto ciò sulle forze di coesione del governo di Saddam? Di certo, in entrambi i casi, non si sarebbero sentiti dell’umore giusto per poter vincere una guerra contro gli Stati Uniti.
La causa dell’Iraq di Saddam Hussein era già persa prima ancora che Desert Storm cominciasse o che il primo Marines mise piede su suolo nemico. E certamente ben prima di sparare il primo colpo.
Perchè la Guerra, da parte degli USA, stava venendo gia condotta in modo fine e sapiente con altre armi rispetto quelle puramente militari. Gli effetti politici di queste armi non militari - così le chiamano i cinesi nel loro scritto - furono devastanti per l’Iraq. E lo strumento squisitamente militare fu impiegato solamente alla fine. A mo’ di cornice di una opera d’arte ben progettata fin dall’inizio. Il resto lo hanno fatto dei congegni di natura differente. Che non assurgono alla antica definizione di violenza.
E questo i cinesi lo hanno osservato molto bene.
Nel Guerra senza Limiti è già presente tutto il necessario per potersi fare un’idea accurata dello stato di evoluzione del conflitto bellico contemporaneo. Lo stesso esempio della Guerra del Golfo del 1991 è ampiamente citato nel trattato cinese.
Abbiamo aperto il nostro ragionamento affermando che l’estetica di un conflitto bellico non sempre è rivelatrice di chi aggredisce e chi subisce l’aggressione.
Potevamo permetterci di crogiolarci nel lusso di sollevare una certa quantità di dubbi su questa affermazione, fintanto che ci mantenevamo legati ad una visione certamente antica, ma confortevole, del mondo intorno a noi.
Come spesso accade nella Storia, le eccentriche ma vigorose verità messe in luce dalla letteratura scientifica possono assumere le sembianze di una seccante doccia gelida in chiunque si bei del calore di certe visioni arcaiche della natura del mondo.
La logica intrinseca alle moderne modalità di esecuzione della Guerra dell’era contemporanea ci impone di non tenere in considerazione ciò che traspare solo dalla sfera dell’immediatamente osservabile.
Di non costruire la nostra visione basandoci superficialmente sui limitati concetti della mera violenza fisica.
Il cambio di paradigma in seno alle definizioni di guerra ed aggressione ci obbliga a fare un salto di qualità intellettuale nelle nostre valutazioni.
Ci dovremmo davvero porre, allora, il problema di come valutare il contesto contemporaneo. Siamo davvero sicuri che colui che spara il primo colpo di fucile sia davvero identificabile come l’origine della violenza nel teatro bellico? E che altre forme di attacco non siano già state precedentemente messe in atto in altre maniere? E se queste forme d’attacco, meno individuabili se non propriamente invisibili, fossero state invece realizzate da coloro che inizialmente deputavamo essere le vittime? La letteratura sopra esposta ci avverte che questa non è una possibilità, ma propriamente la normalità del mondo attuale.
Il rigore scientifico ci impone di non soffermarci sulle apparenze. Per sottolineare quanto sia banale questa affermazione basti pensare alla Fisica, che ha fatto assurgere quanto appena detto a perno fondamentale della propria identità di disciplina scientifica. Il non tenere in considerazione il solo l’orizzonte dell’immediatamente osservabile è ciò che fa la differenza tra il Medioevo e la modernità. Ma avvolte non è mai troppo errato rimarcare l’ovvio.
Prendiamo a titolo di esempio il contesto militare legato all’Ucraina. La grandiosa retorica proposta dall’Occidente collettivo si cementifica apponendo all’indice la Russia come causa fondamentale dello scoppio del conflitto. L’invasione dispiegata dalle Forze Aerospaziali russe nel 2022 non lascia veramente scampo ad errori di valutazione. Loro sono stati i primi e loro cadono, dunque, nell’errore. Oltre che nell’orrore.
Questo sarebbe certamente corretto se ragionassimo come gli antichi, ma sarebbe a dir poco inopportuno se volessimo pensare come i moderni. E l’onestà intellettuale ci impone di abborrire tutto ciò che è ormai relegato all’inconsistenza dell’arcaicità delle errate visioni del mondo. Altrimenti saremmo come quei Barbari che, una volta varcato il limes romano all’alba del V secolo d.C., non si capacitavano della complessità e grandiosità di certe opere romane, lontane anni luce dalle loro capacità pratiche ed intellettuali. Preferendo di ignorare il funzionamento della realtà solamente perchè troppo complessa da confutare.
Se volessimo ragionare come i moderni dovremmo ricercare altre forme di violenza messe in atto in quel particolare contesto per poter individuare il reale aggressore.
Dovremmo identificare modalità di aggressione che non presuppongano la mera distruzione meccanica dell’avversario, procedure di attacco che coinvolgono sfere non direttamente attinenti al campo dell’immediatamente osservabile.
E dovremmo convincerci che per quanto lontane dalla nostra arcaica visione delle cose, esse sono delle reali e tangibili azioni di Guerra. Con scopi di natura politica, perseguiti con mezzi di estrema violenza. Anche se non puramente fisica.
Solo così avremo la possibilità di acquisire la visione necessaria per poterci posizionare nel terreno di scontro, di comprendere la gravità degli errori di valutazione e della vastità della loro portata. Perchè la retorica dell’Occidente intero sta probabilmente insistendo su dei presupposti di valutazione tangibilmente errati, ma su almeno una cosa ha perfettamente ragione: dopo molto tempo è cominciato un devastante ciclo di guerre sul continente, e l’Europa ne è decisa protagonista. Le conseguenze di tutto ciò ci toccheranno molto da vicino, ed il come questo avverrà, dipenderà dalle nostre personali valutazioni e dalla nostra visione della realtà che ci circonda.

